Continua il braccio di ferro tra Malta e l’Unione Europea sull’armonizzazione fiscale. E il fronte maltese, forse mai come stavolta, è compatto in maniera politicamente trasversale. Tutti i sei eurodeputati maltesi – sia laburisti che nazionalisti – si sono disallineati dalle indicazioni dei rispettivi gruppi politici in occasione del voto sull’imposizione di un’aliquota fiscale minima del 21% da imporre alle aziende che operano nel settore digitale all’interno di uno Stato membro UE.
La mossa, vista come un altro passo verso la temuta istituzione di un’imposta comune sulle imprese, è stata appoggiata con una maggioranza schiacciante sia dai socialisti che dai democratici, così come dal Partito Popolare Europeo.
I quattro deputati maltesi del Partito Laburista e i due deputati nazionalisti hanno invece votato tutti contro la risoluzione e in dissenso dai rispettivi gruppi, senza tuttavia fermare l’approvazione, che alla fine è arrivata con 549 voti a favore, 70 contro e 75 astensioni.
L’offerta dell’UE per l’armonizzazione delle aliquote dell’imposta sulle società è stata a lungo il pomo della discordia con Malta, che è accusata di prevedere aliquote più basse e preferenziali per attirare società multinazionali che si basano nell’isola con tutte le loro strutture o almeno con un branch, nell’ambito della propria sovranità costituzionale che delega la fiscalità agli stati nazionali.
L’UE ha cercato di elaborare nuove regole per impedire a queste società di creare filiali in paesi solo per usufruire di un regime fiscale più morbido, che consente comunque allo Stato maltese di alimentare le proprie finanze e mantenere i bilanci in equilibrio. La stessa UE che, tra l’altro, proprio in questi giorni ha dovuto soccombere a un verdetto del suo stesso tribunale, il quale ha annullato una decisione della Commissione che imponeva ad Amazon di pagare 250 milioni di euro in tasse al Lussemburgo: si tratta di una dura sconfitta per Margrethe Vestager, vicepresidente esecutivo della Commissione, che sta conducendo una campagna per frenare i presunti eccessi di alcune delle più grandi aziende tecnologiche del mondo, tra cui anche Apple e Google.
Tornando a Malta, va ricordato nel Paese non vi sono aliquote fiscali agevolate, infatti l’aliquota sul reddito delle società è pari al 35%, ma che può offrire agli investitori, con il sussistere di alcune condizioni, degli incentivi. Nello specifico, un azionista estero che decide di investire le proprie risorse economiche a Malta, riceve dallo Stato maltese (su richiesta) un refund delle tasse pagate dalla società di cui è azionista. Quindi nessuna aliquota fiscale agevolata e nessun automatismo. Una sorta di credito d’imposta, destinato agli azionisti e non alla società, che deve essere dichiarato dagli stessi nello Stato dove è dichiarata la propria residenza fiscale.
Malta e tutta la sua classe dirigente intendono dunque difendere il concetto di concorrenza fiscale contro una decisione dell’UE che risulta illegittima anche rispetto al trattato europeo, dove è previsto che le questioni fiscali siano di competenza nazionale. Va inoltre sottolineato che tale misura non impone una riduzione delle tasse agli Stati che attualmente prevedono un’aliquota troppo alta, ma soltanto di alzare la soglia del prelievo ai governi che cercano di garantire una competitività: strano come concetto di armonizzazione. E alla fine, a pagarne le conseguenze dirette, sono di nuovo le imprese.
La soluzione prospettata dagli strateghi europei è infatti quella di armonizzare la tassazione delle aziende verso l’alto, a prescindere da dove viene generato reddito sul territorio europeo, come se l’Europa fosse un unico Stato, con una propria costituzione condivisa anche rispetto al prelievo fiscale.
Va rilevato, invece, che gli incentivi fiscali sono da sempre in uso nelle politiche di attrazione degli investimenti nei singoli stati membri. Basti pensare alla norma di riduzione delle tasse per i super ricchi, varate dall’Italia nel 2018 che consente ai “paperoni” che trasferiscono la propria residenza in Italia di pagare un’imposta “a forfait” di 100 mila euro all’anno per 15 anni su tutti i redditi.
Non vi è dubbio che si possa anche immaginare un’armonizzazione fiscale in Europa, ma prima di poter arrivare a questo obiettivo, si dovrebbe discutere di armonizzare i servizi ai cittadini ed alle imprese, livellando gli standard verso l’alto, senza considerare, come già successo per la WEB TAX introdotta in Francia e Spagna, che l’aumento delle tasse nei confronti dei giganti del web, sarà riversato dalle multinazionali sui clienti e quindi sui cittadini e le imprese europee.