L’accordo raggiungo in occasione del G7 sull’applicazione di un’imposta minima globale per le grandi società riporta l’attenzione sulla situazione odierna dei paradisi fiscali. Dove si paga l’aliquota fiscale più bassa della tassa sulle multinazionali nel mondo?
Un quadro completo della situazione è stato fornito da un rapporto del think tank Tax Foundation con sede a Washington, dell’OCSE e della società di consulenza KPMG, e rilanciato in Italia dal portale Money.it.
Lo scettro del Paese a tassazione più bassa per le società in tutto il mondo appartiene al Liecthenstein, seguito da Irlanda, Cipro, Moldavia e Macau, e poi a seguire Timor-Leste, Kosovo, Qatar, Paraguay, Nord Macedonia, Kirghizistan, Gibilterra, Bulgaria, Bosnia Erzegovina, Andorra, Montenegro, Ungheria, Turkmenistan, Uzbekistan e Barbados.
A questi Paesi si aggiungono altre nazioni insulari come Bermuda, Isole Cayman e Isole Vergini britanniche, che non impongono alcuna aliquota e sono ben note come “paradisi fiscali” offshore.
Da questi dati emerge una domanda: ma perché Malta, di cui si parla tanto, non viene citata neanche tra i primi venti Paesi? La risposta è una soltanto: Malta non è un paradiso fiscale.
L’aliquota applicata dall’arcipelago del Mediterraneo sul reddito delle società, infatti, è pari al 35%. Sicuramente una percentuale vantaggiosa rispetto ad alcuni Paesi, come purtroppo l’Italia. Ma ben lontana da poter collocare il Paese nell’elenco dei paradisi fiscali.
La peculiarità del sistema fiscale maltese è invece legata all’applicazione del Tax Refund, un sistema di rimborso dei 6/7 (utili commerciali) o dei 5/7 (interessi e royalties) di quanto versato come imposta sugli utili per le società straniere.
Tale rimborso viene erogato dalla amministrazione fiscale in capo al titolare delle quote della società LTD Maltese a fronte della distribuzione degli utili ed entro 60 giorni dalla richiesta.
Il Tax Refund che applica Malta rientra tra le misure fiscali finalizzate all’attrazione di nuovi investimenti stranieri che molti Stati nazionali definiscono nella loro piena autonomia per mantenere una certa competitività.
L’Italia, ad esempio, prevede da alcuni anni una tassazione fissa di 100 mila euro annui per i grandi ricchi, che ha convinto circa 500 “paperoni” a trasferire la loro residenza nel Bel Paese.
Anche gli Stati Uniti d’America, da sempre, si contraddistinguono per una politica favorevole ad attirare investimenti esteri nel Paese, attraverso specifici programmi di incentivazione varati sia a livello federale che a livello statale.
Altri Stati prevedono trattamenti specifici (tax ruling) che possono essere concordati con le single multinazionali, anche in base all’entità degli investimenti che queste sono pronte a portare nel Paese. E’ il caso dell’Olanda, del Lussemburgo, del Regno Unito e dell’Irlanda, dove sono stati accolti anche importanti gruppi di origine italiana come FCA, Campari e Ferrero.
Va quindi distinta, nella definizione di paradiso fiscale, l’aliquota prevista per i redditi delle società, dagli incentivi aggiuntivi destinati nello specifico alle nuove imprese straniere, spesso per un limite temporale. Mettere un freno a questi ultimi, limiterebbe forse ogni oltre limite l’autonomia decisionale degli Stati in materia fiscale. Bene, quindi, frenare abusi e pratiche scorrette, senza però frenare l’ambizione legittima di ogni singolo Paese ad affermare la sua competitività.